La questione sequel

Nel corso degli anni abbiamo imparato che i franchise di successo nel mondo videoludico si spengono difficilmente, vuoi per una questione di guadagni da parte dei publisher, vuoi per le richieste del pubblico.
Esempi illustri sono alcune tra le esclusive più importanti delle console, da God of War ad Halo, da Pokémon a Zelda.
Gli studi first party, si sa, hanno vincoli contrattuali ben precisi e da loro ci aspetta raramente una nuova IP ma piuttosto un seguito (o al limite uno spin-off) del brand celebre di turno indirizzato a far presa sui fan di vecchia data spingendo in su le vendite della console in questione.
Con i multipiattaforma, invece, la situazione cambia parecchio, in quanto ci si trova di fronte ad una considerazione riguardante solo il software e nicchie ben più ristrette di utenza.

Assassin's Creed Unity - Recensione 6

Quanto è giusto per un produttore lanciare annualmente un sequel?
In termini economici diremmo che si tratta di una scelta sensatissima, basti osservare i dati di vendita dei vari Assassin’s Creed, Street Fighter, Fifa ed altri, tali da giustificare la release annua.
Tuttavia in termini qualitativi i risultati si rivelano spesso altalenanti, come dimostra la graduale parabola discendente di giganti dell’industria del calibro di Call of Duty.
Benché continuare a spremere un brand sia purtroppo una scelta obbligata nella maggioranza dei casi, complici le quotazioni in borsa dei principali publisher internazionali, alla lunga c’è il rischio di abbassare o addirittura azzerare l’appeal di marchi storici e trasformarli in patetiche ombre del loro glorioso passato (viene subito in mente Sonic).
Chiaro, non tutti i sequel rientrano nella categoria dei giochi mediocri, anzi molti di essi li annoveriamo tra i migliori mai sviluppati, ad esempio Silent Hill 2, Metal Gear Solid 3, Final Fantasy 7 e così via; ultimamente potremmo anche elogiare Dark Souls 3 o The Witcher 3, nati dalle mani di sviluppatori che hanno sempre avuto una concezione piuttosto alta del medium videoludico e si sono prefissati l’obiettivo di deliziare i propri fan nel miglior modo possibile.

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Poi però ci sono i businessman, quelli che considerano il gioco un mero prodotto commerciale, quelli a cui non importa di quanto i clienti siano soddisfatti, coloro i quali pensano solo ed esclusivamente al guadagno rilasciando a ripetizione sequel infarciti di DLC e microtransazioni.
La differenza sta nell’obiettivo preposto in sede di produzione: c’è chi sviluppa sperando di realizzare un progetto con cui stupire, c’è chi lo fa con in mente soltanto il portafogli pieno.
Sta a noi mandare un messaggio, valutando di volta in volta senza mai acquistare a scatola chiusa giusto perché apprezziamo un franchise.
Metal Gear Survive è il perfetto esempio di ciò di cui abbiamo parlato finora, l’ultima dimostrazione del trend di sfruttamento di videogiochi e videogiocatori al di fuori di ogni etica professionale.
I sequel sono un’opportunità enorme per migliorare IP partite zoppicando oppure semplicemente per innalzarle da buoni prodotti a capolavori, alla maniera di CD Projekt RED.
L’innovazione è la chiave, cullarsi sugli allori significa perdere utenza: ecco spiegato l’hype ormai spento verso i capitoli annuali di brand famosissimi e la crescente eccitazione all’annuncio di nuove IP.

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