Recensione Return to Monkey Island

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Tra i più giovani di voi il nome Monkey Island potrebbe significare poco e niente, ma per coloro che hanno vissuto per intero gli anni ’90 è un nome che ricordano con grande nostalgia. La software house LucasArts era sinonima di avventure grafiche magnifiche, fuori di testa, piene di humor e soprattutto indimenticabili. Maniac Mansion, Days of the Tentacle, Sam & Max, Indiana Jones, e per l’appunto Monkey Island, sono solo alcuni dei giochi che hanno sfornato e che hanno sancito la fortuna di quello che venne considerata l’epoca d’oro delle avventure grafiche. La serie di Monkey Island è tra le più preferite in quanto è stata l’unica che ha visto svariati sequel, l’ultimo dei quali risale al 2009 ed era stato prodotto dalla Telltale ed era passato praticamente inosservato. Pensando che la serie fosse ormai morta e sepolta, ecco che Ron Gilbert (uno degli autori originali, assieme a Dave Grossman), come un fulmine a ciel sereno, aveva annunciato al mondo intero che un nuovo Monkey Island era in produzione e sarebbe uscito di lì a poco. E finalmente quel giorno è arrivato, e siamo qui per rispondere a una sola domanda che tanto attanaglia tutti i fan: Return of Monkey Island merita?

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Quel Cielo Dipinto Di Blu

A differenza di un altro piccolo capolavoro quale è Thimbleweed Park, a questo giro Ron Gilbert ha preferito sviluppare Return to Monkey Island in chiave moderna anziché sfruttare la pixel art o un’altra forma artistica che richiamasse gli anni ’90, rimanendo tuttavia nel mondo 2D: niente ambienti tridimensionali, niente modelli ricavati da attori famosi o animati tramite mocap, bensì uno stile artistico che sembra più essere stato disegnato a mano che non creato al computer, con colori estremamente saturi e brillanti che rendono ciascuna schermata un simil ritratto e con personaggi alquanto spigolosi da sembrare quasi abbozzati, ciononostante sprigionano carisma da ogni pixel. Tale stile è stato recepito in maniera alquanto divisiva sin dalla pubblicazione del trailer d’annuncio. C’è chi dice che è meraviglioso, c’è chi diceva che poco c’azzecca con la serie e che avrebbero dovuto adottare un approccio più simile ai primi due. Dopo averlo giocato dall’inizio alla fine, ci sentiamo in dovere di difendere questa scelta, in quanto riteniamo che risulti essere alquanto accattivante, originale e soprattutto davvero deliziosa da vedere in azione.

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Lo stesso processo di modernizzazione l’ha subìto anche il gameplay. Fermo restando che il suo cuore è rimasto invariato (si punta, si clicca), è ad esempio sparita la tabella dei verbi, e ora il giocatore ha a disposizione solamente il tasto destro e sinistro del mouse per interagire col mondo di gioco. Nient’altro. Quale tasto faccia cosa lo diranno i fumetti che appariranno quando si passerà sopra il cursore. Sicuramente i puristi storceranno il naso per tale semplificazione, ma a parer nostro non fa altro che snellire un sistema di gioco che altrimenti è in grado solo di causare grandi perdite di tempo.

Un’altra aggiunta alquanto gradita è la presenza di un tasto per far apparire gli hotspot, i punti in cui si potrà interagire. Una delle più grandi sciagure delle avventure grafiche era la cosiddetta “pixel hunt”, in cui occorreva trovare il punto con cui poter interagire con un oggetto di dimensioni minuscole (pochissimi pixel per l’appunto), che molto spesso passava totalmente inosservato, causando perdita di molte ore da parte del giocatore che non sapeva più che pesci pigliare per proseguire con l’avventura. Se da una parte la presenza di tale tasto in Return of Monkey Island è ridondante, in quanto di oggetti volutamente nascosti non ce ne sono, dall’altra rimane un’ancora di salvezza nel caso si rimanga bloccati da qualche parte e si vuole avere la certezza di aver spolpato un posto da cima a fondo senza aver tralasciato niente. E poi, diciamolo, riteniamo che la presenza dei collezionabili sia un piccolo omaggio a questa pratica! È persino presente una soluzione interna che si può consultare nel caso si rimanga incastrati da qualche parte, e il gioco stesso ci avverte di usarlo esclusivamente quando non si sa più dove sbattere la testa. Considerato che l’alternativa sarebbe appunto consultare una guida online, la sua presenza non deve essere vista come fumo negli occhi. Basta non usarla!

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La scimmia a tre teste

Appurato che Return to Monkey Island dal punto di vista del gameplay è un’avventura punta e clicca come dovrebbe essere, come se la cava invece col resto? Essendo Ron Gilbert e Dave Grossman alla guida di questo progetto, la sensazione generale che si ha mentre lo si gioca è che sì, questo è un Monkey Island in tutto e per tutto. A partire dall’iconico protagonista, l’impronunciabile e temibile Guybrush Threepwood, passando poi per l’umorismo, il quale permea dall’inizio alla fine, ma soprattutto alle innumerevoli citazioni di tutti i capitoli precedenti, come a voler dire che questo gioco non è un titolo a sé stante, ma fa proprio parte dello stesso universo narrativo. Oltre a nuovi personaggi, non mancheranno naturalmente anche quelli vecchi, come Elaine, Carla (la maestra di spade), la nemesi LeChuck, la donna Vudù, e tanti altri che sicuramente appena li vedrete vi faranno accendere una lampadina.

La storia di Return to Monkey Island riguarda Guybrush cimentarsi nella sua nuova folle idea: trovare il Segreto di Monkey Island, qualunque cosa sia, in quanto nessuno sa nemmeno se esiste per davvero. Il problema è che non è l’unico che l’ha adocchiato, anche il pirata fantasma LeChuck sembra essere estremamente intenzionato a trovarlo. L’avventura inizierà dunque su Melee Island, la mitica isola dove iniziava anche il primo Monkey Island, con l’intenzione di ottenere una nave, dell’equipaggio, e partire alla volta di Monkey Island e recuperare il Segreto prima che lo faccia LeChuck (tranquilli, non c’è alcun limite di tempo!).

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Il gioco è suddiviso in cinque atti, e a parte l’ultimo atto che è estremamente lineare, tutti gli altri sono alquanto aperti e chiederanno al giocatore di recuperare un certo numero di oggetti prima di poter proseguire con la storia. Per come gli atti sono strutturati, il giocatore avrà la piena libertà sull’ordine con cui vorrà completare i propri obiettivi, per cui se dovesse bloccarsi da qualche parte, avrà pur sempre un’altra strada da seguire. Di seguito faremo una breve spiegazione su ciascun atto (senza fare spoiler naturalmente), per evidenziarne i pro e i contro:

  • Atto 1 è su Melee Island. Non è male come primo atto per introdurre il gioco senza sopraffare il giocatore di cose da fare, e permette di conoscere i primi personaggi con cui avrà a che fare.
  • Atto 2, alquanto corto e con un numero molto limitato di schermate, ma è molto denso e anche in questo caso permette di conoscere alcuni nuovi personaggi che si riveleranno essere preziosi più avanti.
  • Atto 3, il più debole del gioco: non solo è estremamente corto, ma la maggior parte del tempo la si passa nella stessa location dell’Atto 2, e i puzzle sono talmente semplici che lo si supera senza accorgersene. Si poteva fare certamente di più!
  • Atto 4, il migliore del gioco. È bello polposo, vario, pieno di cose da fare, tanti obiettivi da seguire, ha tantissime location diverse tra loro e ancora nuovi personaggi da conoscere. Saremmo stati certamente più felici se ci fosse stato almeno un atto come questo nel gioco.
  • Atto 5, è la parte conclusiva del gioco. Come avevamo già anticipato è estremamente lineare, e si risolvono enigmi uno dietro l’altro fino a raggiungere il finale.
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Usa questo su quello

Chiaramente il tempo che occorrerà per arrivare ai titoli di coda e scoprire cosa è davvero il Segreto varierà, anche di molto, da giocatore a giocatore. Noi per esempio siamo arrivati alla conclusione in 14 ore tonde tonde (ammettiamo di aver usato il libro dei suggerimenti una volta), che per un titolo del genere è un tempo più che dignitoso. Ad aumentare la longevità ci pensano comunque gli achievement, che si sbloccano in larga parte facendo quest opzionali. A noi ne mancavano ben 21, come a volerci suggerire che non siamo riusciti a vedere tutto quello che il gioco offre o a risolvere tutti gli enigmi che ci sono stati messi davanti.

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La qualità dei puzzle e degli enigmi è proprio come ci si aspetterebbe da un Monkey Island: alcuni sono fuori di testa, altri sono alquanto logici e trovare la soluzione richiede un minimo di ragionamento, altri sono molto semplici e diretti. Purtroppo, non tutti sono usciti perfetti, e ce ne sono alcuni che risultano essere alquanto ripetitivi, o altri che si arriva alla soluzione più per caso che per vero merito del giocatore, ciononostante noi non ci siamo mai trovati nel tipico caso “prova tutti gli oggetti nell’inventario su tutto” per andare avanti, anche se qualche piccolo indizio pertinente per far capire almeno le intenzioni del gioco sul perché dobbiamo fare proprio una certa azione sarebbe stata cosa gradita. Lo spirito dei puzzle è rimasto inalterato dai precedenti Monkey Island, ovvero far fare a Guybrush, in chiave ironica, cose ignobili, illegali, spregevoli, immorali, perché tanto lui è un pirata. Perché convincere qualcuno a darci un oggetto quando lo si può rubare? Perché impegnarsi per vincere una gara quando la si può sabotare a proprio favore? Ecco, ci siamo capiti.

Due parole sul finale: risulterà essere molto divisivo. Se da una parte non è esattamente il finale che ci si aspetterebbe dopo tutte le peripezie passate, dall’altro è un finale che lascia spazio all’interpretazione del giocatore, anche perché sotto la superficie c’è più di quanto si potrebbe inizialmente pensare. Vi suggeriamo di rifletterci su per bene prima di fare conclusioni affettate!

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Conclusioni

Per rispondere alla domanda nell’introduzione di questa recensione, diremmo che sì, Return of Monkey Island merita. È il sequel che ogni buon pirata e fan di Threepwood stava aspettando, pieno di umorismo, situazioni paradossali, puzzle ogni dove, una storia che spinge a proseguire e citazioni a non finire. Non è perfetto, ci sono alcuni passaggi che avrebbero meritato una maggiore cura e una maggiore longevità, così come i nuovi cattivi avrebbero meritato un miglior approfondimento, ma nel complesso è un’avventura che intrattiene dall’inizio alla fine, e per il prezzo a cui è venduto (il quale è a sua volta una citazione) rappresenta un vero e proprio affare.

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