Si definisce survival un gioco in cui le meccaniche principali consistono nella microgestione di risorse in un ambiente solitamente ostile e nel combattimento sia con eventuali nemici sia con bisogni primari, malattie e infortuni.
L’idea di base è buona sulla carta, eppure la realizzazione lascia spesso a desiderare, ragion per cui tale (sotto)genere oggi annovera tanti fruitori quanti detrattori.
Uno dei problemi potrebbe essere la mancanza di originalità da parte degli sviluppatori che vi si cimentano, adattatisi a quel trend di proceduralità ormai piuttosto abusato, insieme ad alcuni altri elementi divenuti canonici.
Il peculiare senso di mistero e pericolo costante dei survival è adesso rimpiazzato da una serie di regole ristrettissime, dal crafting alle barre di fame, sete e stanchezza del protagonista.
Proprio queste barre rappresentano, secondo noi, il punto debole di esperienze potenzialmente intriganti ma in fin dei conti tediose e ripetitive.
Doversi prendere cura dell’alter ego come una babysitter, diciamolo con franchezza, non è divertente.
Essere disturbati dai messaggi di allerta dello svuotamento di una barra in particolare spezza l’azione, l’immersività, in certi casi persino la voglia di continuare a giocare.
Non si tratta di sopravvivenza ma di placare fame, sete e stanchezza di un personaggio che si ferisce e si ammala di continuo, in un ciclo infinito di eventi prestabiliti che ricorda moltissimo i vecchi tamagotchi (ve li ricordate?).
In molti casi anche gli equipaggiamenti e le armi necessitano di rattoppamenti regolari giacché si rompono dopo pochi utilizzi, come se il tutto non fosse già abbastanza frustrante.
Un modo per attenuare la monotonia insita nel genere sarebbe quello di aggiustare il tempo di svuotamento delle barre, se non eliminarle del tutto o ancora lasciando al giocatore la libertà di personalizzarne il cooldown, alla stregua di Don’t Starve.
Altrimenti si potrebbe optare per l’inserimento di occasionali eventi scriptati in modo da infrangere l’estrema piattezza del sandbox generato proceduralmente, la nuova moda dell’early access da diversi anni a questa parte.
Come ci insegna No Man’s Sky, il randomico e la quantità non bastano a costituire basi solide per un’esperienza su larga scala: servono missioni uniche, obiettivi ben strutturati, in breve qualcosa di soddisfacente che si alterni con sapienza alle fasi di raccolta risorse e crafting, soporifere dopo poco.
Al momento, se escludiamo rare eccezioni come This War of Mine o Starbound, la moltitudine di survival su Steam si ferma al concept banale di sandbox multiplayer, magari con gli zombie, in cui la grandezza del mondo di gioco è inversamente proporzionale alla sua ricchezza di contenuti originali.
Una buona fetta di sviluppatori pensa di poter intrattenere il giocatore semplicemente gettando nella mischia una manciata di elementi randomici all’interno di un ambiente procedurale, tuttavia la realtà è ben diversa e affidarsi all’RNG non sempre si rivela una scelta appropriata.
La pigrizia di alcuni team affiora poi dagli interminabili tempi di sviluppo che si protraggono incessantemente intasando la sezione early access, talora servendosi di pompose promesse o espedienti di marketing losco (H1Z1, ARK, Dayz) per invogliare l’utenza ad un acquisto frettoloso.
Le idee ci sarebbero pure ma sono spesso oscurate dall’inesperienza e dalla furbizia di certi sviluppatori: ecco perché, se non si giungerà presto ad una rivoluzione, il survival sarà destinato a rimanere soltanto una mera moda.