Il DRM (Digital Rights Management) è un sistema di protezione dei diritti digitali introdotto in ambito videoludico negli anni ’80 allo scopo di contrastare la pirateria informatica.
Nel corso dell’ultimo decennio questa tecnologia ha iniziato a diventare sempre più invasiva e incidente sulla fruibilità dei giochi a causa delle cattive implementazioni da parte delle case di sviluppo, a cui proteggere i propri lavori in tal modo costa peraltro un occhio della testa.
Il motivo? La paura dei pirati, dipinti come una devastante piaga, quasi del tutto esclusiva al gaming su PC, da estirpare con ogni mezzo.
Questo timore non è del tutto infondato, o almeno non lo era fino a qualche anno fa, in particolare per quanto riguarda le console casalinghe di vecchia generazione (PS3, Xbox 360), NDS e PSP, oltre al chiacchieratissimo personal computer a cui si addossano ingiustamente tutte le responsabilità di tale, spiacevole, fenomeno.
I publisher, infatti, hanno sempre sfogato la loro psicosi contro noi poveri utenti PC adottando metodologie di verifica e attivazione che definire fastidiose sarebbe un eufemismo.
Da GFWL a Rockstar account, dal SecuROM all’obbligo di essere connessi ad internet anche nei giochi single player fino ad arrivare al terribile Denuvo, utilizzato ormai regolarmente da diverse software house.
Il problema è che i DRM tendono a gravare molto sia sulle spese di produzione sia, in parecchi casi, sulle prestazioni dei titoli con impatti consistenti su CPU e RAM in titoli come Lords of the Fallen, FIFA e Batman Arkham Knight, per non parlare del lag e dei problemi di disconnessione negli always online, ad esempio Diablo 3.
Anziché cercare di invogliare gli utenti all’acquisto fornendo prodotti funzionanti e dall’ottimo rapporto qualità/prezzo, i publisher hanno addirittura deciso di punire gli acquirenti inondandoli di limitazioni e costringendoli talvolta a ricorrere a software di terze parti per tamponare eventuali incompatibilità.
Ciò che spinge i giocatori a piratare, nella maggioranza dei casi, non sono disonestà e mancanza di rispetto verso il lavoro altrui ma la stizza nei confronti di certe politiche semi-fraudolente che vanno spesso ad intaccare l’essenza del gioco stesso.
Non a caso il più piratato della storia è Spore, titolo tra l’altro anche mediocre con cui EA ha deciso di lanciare la sua campagna di criminalizzazione preventiva contro gli utenti PC immettendo sulla scena il SecuROM, DRM che impediva l’installazione del software su più di 3 sistemi.
Quale miglior metodo per combattere la pirateria se non punire i legittimi acquirenti?
Di fronte alle lamentele del pubblico, per fortuna, alcune aziende hanno iniziato ad adottare strategie più user friendly: è il caso di Humble Bundle, GOG, Desura e Indie Royale, teste di serie in un mercato “pulito”, equo ed economico alternativo a Steam, la forma di DRM più popolare al mondo.
Questi store vendono giochi privi di protezione dei diritti digitali in accordo con gli sviluppatori e i publisher abbastanza trasparenti da accettare tali condizioni pro consumatore, ottenendo un successo senza dubbio incoraggiante seppur non ancora ai livelli dei blasonati concorrenti.
Osservando i recenti dati di vendita su siti come Steamspy e la percentuale al ribasso di titoli piratati si può notare come la popolarità degli shop digitali, insieme alle politiche DRM-free di cui parlavamo, hanno sicuramente contribuito ad annichilire il fenomeno tanto esasperato dai soliti grandi nomi dell’industria, appigliatisi spesso alla scusa della pirateria per giustificare lo scarso numero di copie vendute o il rifiuto di produrre dei porting.
Considerando che quasi tutti gli utenti che piratano lo fanno per boicottare determinate pratiche ritenute scorrette o per mancanza di denaro e quindi non comprerebbero ugualmente il gioco in questione, c’è ancora da sindacare sull’utilità dei DRM nei videogiochi?
Secondo noi, no.