Comprendere le ragioni di un successo commerciale spesso è un compito molto difficile in qualunque campo, e spesso cercare di usare il buon senso non porta da nessuna parte. In questo articolo cercheremo comunque di comprendere quali sono gli elementi più importanti che hanno permesso a Playerunknow’s Battlegrounds (d’ora in poi PUBG – e per chi se lo stesse chiedendo, si pronuncia più o meno “pab-gi”) di ritagliarsi un’enorme fetta di mercato nei competitivi multiplayer e vincere al tempo stesso il titolo di multiplayer dell’anno dai Golden Joystick Awards. Naturalmente le ragioni possono essere diverse se osservate da altri punti di vista, e siete liberi di dire la vostra se c’è qualcosa per cui non siete d’accordo.
Per chi non lo sapesse, un piccolo riassunto sul gioco: cento giocatori vengono fatti paracadutare su una enorme mappa totalmente disarmati, e l’obiettivo è uccidere tutti gli altri rimanendo l’unico sopravvissuto, cercando nel frattempo armi ed equipaggiamento in giro. Tutto qui.
Ma prima di iniziare, vorremmo chiarire come mai definiamo il successo di PUBG “paradossale”. Ebbene, come vedremo, sono tanti gli elementi che per le altre software house implementarli sono la norma per decretare il successo di un gioco, eppure PUBG fa esattamente l’opposto. Il buon senso direbbe dunque che PUBG dovrebbe essere un fallimento, eppure ha vinto addirittura sette Guinness World Record per le sue prestazioni di vendita nonché di numero di giocatori contemporanei, ed ecco dunque il motivo per cui definiamo il suo successo “paradossale”.
Chi sono io, un signor nessuno?
Partiamo da uno degli elementi forse meno importanti, ma che fa capire bene quanto un elemento considerato comunque importante in realtà non sia così importante come dovrebbe: il carisma dei personaggi.
La stragrande maggioranza dei videogame mette sul piatto personaggi ben definiti con uno stile artistico e con addirittura una biografia, e in certe produzioni addirittura si arriva a ingaggiare un doppiatore per dargli addirittura una voce, un tono, delle battute caratteristiche, e spesso i personaggi più riusciti diventano delle vere e proprie immagini di riferimento per il gioco. Se diciamo Overwatch, probabilmente subito vi salta in mente uno dei suoi personaggi, che sia Tracer, McCree, Hanzo, o chissà chi altro.
Eppure, i protagonisti di PUBG sono dei signori nessuno, personaggi senza nome, senza storia, senza niente. Colui che capeggia nella copertina di PUBG, è solo letteralmente un tizio a caso con un elmetto, una cravatta e una pistola in mano, non ha nessun nome né nessuna storia da raccontare. Tuttavia il giocatore può crearsi il proprio personaggio scegliendo da una rosa molto limitata di volti, può cambiarne il colore della pelle, lo stile dei capelli, può cambiarne i vestiti (che bisogna pagare a peso d’oro sul mercato di Steam), e il nome – che ovviamente prenderà quello scelto dal giocatore al momento di creare il proprio account di PUBG.
Perché pensiamo che una cosa del genere sia importante parlarne?
Perché pensiamo che avere a che fare con personaggi anonimi sia comunque una parte importante dell’esperienza che il gioco vuole trasmettere, ovvero che tutti i personaggi che si ritrovano a combattere in PUBG siano personaggi di tutti i giorni che si ritrovano in una situazione estremamente straordinaria, ed è quindi più facile per i giocatori immedesimarcisi. Un aspetto che viene spesso dimenticato.
Crescita del personaggio non pervenuta
Un altro aspetto che molti sviluppatori pensano sia importante mettere nei titoli multiplayer è una progressione del personaggio. Più il giocatore gioca, più sale di livello, più equipaggiamento o abilità può scegliere all’inizio della partita, e dà anche un numerino da visualizzare accanto al proprio nome, giusto per far vedere quanto siano “bravi”. Questo sistema ricompensa qualunque giocatore, sia quello occasionale che il più dedicato, dando soprattutto un motivo in più per continuare a giocare, perché fornisce loro l’artificiale illusione di diventare sempre più forte, nonostante, probabilmente, la propria abilità con i videogame non migliori affatto.
PUBG non ha nulla di tutto questo. Non ha alcun livello d’avanzamento né equipaggiamento o abilità sbloccabili col tempo o con punti abilità ottenibili acquisendo esperienza. La prima partita pertanto sarà, da questo punto di vista, uguale alla centesima o alla millesima. Ciò che cambia veramente è l’esperienza che il giocatore acquisirà personalmente col gioco, capendo varie meccaniche, prendendo confidenza con le varie armi, diventando più bravo a guidare o a gestire l’inventario, capendo quali sono le zone più pericolose e quali più ricche di loot, e così via.
Insomma, il gioco di per sé da questo punto di vista non fornisce apparentemente alcun incentivo a giocare, puntando invece tutto sul divertimento che il gameplay riesce a offrire, ma forse forse questo aspetto è soppiantato dalle casse che si possono acquistare con i crediti vinti alla fine di ogni match…
Vincere è statisticamente improbabile
Chi mai giocherebbe a un gioco in cui è staticamente improbabile ottenere una vittoria?
Per molti sviluppatori, un videogioco dovrebbe essere uno svago, un momento dove è possibile diventare qualcuno e ricevere delle soddisfazioni, nello specifico vincere una partita, ed è per questo che puntano sui giochi a squadre, che siano 6vs6 o 32vs32, poco importa, l’importante è che ci siano due squadre che si contendono la vittoria. Per semplificare, supponendo che vincere tal giochi sia solo una questione di mera fortuna, si entra in un server e si viene appioppati a una delle due squadre, una dovrà perdere e una dovrà vincere, pertanto in questi casi si ha a che fare con una semplice moneta, testa o croce, se punto testa ed esce croce fa niente, si era finiti nella squadra sfortunata, alla prossima partita forse andrà meglio. PUBG invece non usa una moneta, ma un dado a cento facce. Statisticamente quindi si ha un centesimo di probabilità di vincita, ovvero l’un per cento, che tradotto significa che statisticamente si vincerà una partita ogni cento, e supponendo di giocare cinque match al giorno la sera dopo cena, vuol dire che in media si vince una volta ogni tre settimane circa. D’accordo, c’è sempre la possibilità di giocare a coppie o a squadre di 4, ma poco cambia, perché le probabilità di vittoria passano dall’1% a rispettivamente al 2% e al 4%, numeri che sono sempre statisticamente esigui.
Insomma, stando al ragionamento di molti sviluppatori, giocare a PUBG dovrebbe essere deprimente, dovrebbe invogliare solo a cambiare gioco e farne uno dove vincere sia più probabile. Invece pensiamo che a soddisfare il giocatore in questo caso non sia la vittoria in sé, ma il vedere la propria esperienza col gioco dare i suoi frutti raggiungendo posizioni più alte a fine partita, a essere tra coloro che più a lungo sono sopravvissuti, anche se non si è nemmeno sparato un colpo per tutta la durata del match.
Baciati dalla Dea Bendata
Come si suol dire, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo. Uno degli aspetti fondamentali su cui molti sviluppatori pongono particolare attenzione è il fatto che tentino di rendere il gioco il meno casuale possibile se non nullo (al netto delle casse loot si intende…), legando quindi la vittoria o la sconfitta alle abilità dei singoli giocatori.
Tuttavia, in PUBG sembra addirittura che la fortuna la faccia da padrona, sembra che spesso premi di più i giocatori fortunati e punisca quelli sfortunati, soprattutto nelle prime ore di gioco.
Eppure, più si impara a giocare, più si comprendono quali sono gli elementi che sono gestiti dalla fortuna, e quali invece dall’abilità propria, arrivando al punto che anche in caso sfortunati, si può avere la meglio sfruttando le proprie abilità e capacità di predire il comportamento degli avversari, ma è chiaro che non sempre si può vincere, basta una piccola distrazione, un piccolo imprevisto, che la partita può terminare con una sonora pallottola nella testa. Perché sì, la fortuna gioca comunque il suo ruolo per via della presenza di elementi casuali e del comportamento imprevedibile degli altri giocatori, ma non è così determinante.
Si può paragonare il titolo come al gioco del poker, gioco che ai più sprovveduti può sembrare tutto gestito dalla fortuna, ma, sotto sotto, i professionisti sanno bene come giocare anche con carte scadenti in mano. E anche loro sanno che è impossibile vincere tutte le mani, per cui mirano a vincerne la maggior parte. La stessa cosa accade in PUBG, è impossibile vincere tutte le partite, ma se si gioca bene si può tranquillamente concludere la partita perlomeno tra i primi dieci.
Però è indubbio che l’elemento fortuna sia alquanto affascinante e abbia il suo ruolo nell’attirare la gente, altrimenti, esempio a caso, un gioco come The Binding of Isaac (e lo stesso riguarda le controverse lootbox, che per quanto siano odiate dati alla mano la gente le acquista) non sarebbe mai e poi mai decollato.
Conclusioni
Indubbiamente va dato atto a PUBG di essere un esperimento coraggioso, in grado di discostarsi di molto dai titoli più giocati e blasonati finendo con l’avere la propria identità univoca e inconfondibile, il cui successo era persino totalmente imprevisto dagli stessi sviluppatori, i quali speravano di vendere giusto 300k copie entro dicembre, quando ormai ha già sorpassato le 20 milioni di copie.
E il suo successo comunque è una chiara indicazione che il mercato aspettava da tempo immemore un titolo del genere, che fosse diverso, unico, hardcore, imprevedibile, difficile, dalle meccaniche semplici ma raffinate, e che non contenesse banali microtransazioni da pay-to-win. Ma la cosa più importante è che la combinazione di questi elementi ha creato una formula che sa divertire e intrattenere, soprattutto se giocato in gruppo con amici fidati, e forse è questa la cosa più importante – ma che in fondo tutte le software house tentato di fare, più o meno bene. Certo, ha ancora parecchi difetti e bug, ma questo dettaglio esula da ciò che questo articolo vorrebbe esporre.
Insomma, per quanto si dica che il mercato dei titoli competitivi o multiplayer sia saturo, in realtà un posticino c’è sempre per chi osa essere diverso e originale, ma soprattutto, funzionale.