Il protagonista di The Crow’s Eye si risveglia in una stanza, una sorta di salottino. Non sa chi è, c’è buio, e la luce che filtra dalla finestra non basta per illuminare la stanza, ma fortunatamente un accendino zippo trovato nella tasca sopperisce a questo fatto. La porta che conduce fuori è chiusa a chiave, ma frugando un po’ in giro la trova. Non fa in tempo a mettere fuori piede che viene contattato da uno strano individuo con un walkie-talkie, dalla voce è in apparenza un vecchio, dice che lo sta osservando da delle telecamere, e che vuole fare un gioco con lui…

Nella vecchia università…

The Crow’s Eye inizia così, e basta poco per accorgersi che il luogo del titolo è una università di medicina abbandonata, riadattata all’uopo dal vecchio cattivo di turno. Il gioco infatti consiste nel risolvere enigmi e fasi platform di difficoltà crescente per compiacere la sua sete di conoscenza, e nel mentre il giocatore dovrà impegnarsi per trovare i vari documenti e nastri registratori che raccontano di vicende risalenti a vent’anni prima, relative alla sparizione di alcuni studenti e dalle indagini svolte da alcuni investigatori, e che in qualche modo sono collegate a tutto questa faccenda, ma soprattutto per scoprire chi effettivamente il protagonista sia e chi si cela dietro la voce gracchiante nel walkie-talkie.
Per quanto alla fine il finale sia decente e spieghi in maniera appropriata tutto il viaggio di circa 5 ore e il disturbo che il protagonista ha dovuto sopportare, la storia in sé fatica davvero a decollare, né ci sono picchi memorabili nella narrazione.
La natura degli enigmi proposti spazia da quelli di natura prettamente logica, dove bisogna spostare delle casse su cui saltare e posizionarle nei posti corretti, fino a muovere dei cubi magnetici e cercare di inserirli negli appositi spazi, a quelli in cui bisogna usare un particolare strumenti elettromagnetico per muoversi nell’ambiente, e quelli puramente platform, dove bisogna saltare a tempo su piattaforme in movimento, e in certi frangenti attivare l’adrenalina per ottenere un effetto rallenty nonché ottenere un boost nella velocità e avere quindi un salto più lungo.


Purtroppo sulla qualità degli enigmi proposti ci sarebbe molto da discutere, perché sebbene molti siano buoni ed è necessario un po’ di ragionamento logico per essere risolti, ce ne sono diversi che purtroppo sono pessimi, che rientrano nella categoria dei puzzle che vanno risolti sfruttando la forza bruta o del tenta e ritenta finché non si giunge alla soluzione, perché purtroppo è quella l’unica maniera per risolverli.
Il gioco in certi frangenti pecca di comunicare con il giocatore cosa deve fare o dove deve andare, ad esempio non esita a mostrare una porta che si apre con un cambio di inquadratura quando si tira una particolare leva, ma non è una costante, e a volte capita che si apra una porta senza nemmeno essersene accorti. E in certi livelli, che sono alquanto spaziosi, la mancanza di feedback di ciò che succede nell’ambiente come conseguenze delle azioni del giocatore è un difetto.
È capitato anche di trovare una porta chiusa e di non capire come si poteva aprire, perché il messaggio visualizzato quando la si tentava di aprire era “non stai usando l’attrezzo giusto”. Che cosa vuol dire? Solo dopo un’attenta analisi alla piccola icona che appare al centro dello schermo si capiva che la porta si sarebbe aperta scassinandola con dei grimaldelli, quando sarebbe bastato un messaggio in stile “questa porta ha una serratura semplice che potrei scassinare se solo avessi l’oggetto giusto”, cosa che avrebbe fatto perdere meno tempo al sottoscritto nel cercare di trovare un’ascia o un oggetto pesante con cui sfondarla…
I grimaldelli sono oggetti che si possono creare combinando assieme alcuni elementi, e su questo aspetto in sé non c’è niente di male, ma la cosa bizzarra, e che sotto certi aspetti rovina il coinvolgimento, è che per farli è necessario usare anche un seghetto ed è un oggetto che viene tolto dall’inventario ogni volta che viene usato per crearli, pertanto quelle volte che è necessario fabbricarli, va cercato anche un nuovo seghetto. Alla terza volta che bisogna trovare tal attrezzo per fabbricarli viene spontaneo chiedersi come il protagonista usi effettivamente questi arnesi per romperli così facilmente, perché non c’è altra spiegazione logica…
Comunque, gli oggetti che si possono creare sono pochi, e spaziano appunto dai già citati grimaldelli, fino a mappe e bende per ripristinare un po’ di vita. Eppure, non ci sono nemici con cui combattere…

Così solo… Così in compagnia…

Sebbene The Crow’s Eye sia definito un horror, è un horror solo nelle atmosfere, non nei contenuti. A parte qualche caso di jump scare, che ci può stare, a farla da padrona è l’ambientazione tetra e buia dell’università di medicina, più qualche scricchiolio a caso. Ma come detto prima, non c’è niente da combattere, nessun’arma da trovare, nessun mostro da cui fuggire.
E l’università che fa da sfondo all’intera vicenda, è suddivisa in una decina di livelli, ognuno in un settore preciso dell’istituto, e ognuno di essi può vantare un level design tutto sommato curato e ben riuscito, e fortunatamente non è per nulla lineare. Non è open world, sia chiaro, in quanto una volta completato un livello, si prosegue nell’altro senza possibilità di tornare indietro. L’alternanza tra zone logorate dall’umidità e anni di incuria, a quelle con macchinari spartani e di fortuna, per finire tra quelle dall’apparenza ultra-tecnologiche con cubi magnetici galleggianti e piattaforme azionate da giganteschi ingranaggi, all’inizio disorientano e fanno storcere il naso, ma complessivamente hanno senso e hanno un loro fascino.
La vita citata prima che va ripristinata tramite l’uso di bende è infatti giustificata dal fatto che quando si sbaglia un salto durante una fase platform e si cade in un apparente pozzo senza fondo o in acque putride, si ritorna sull’ultima piattaforma su cui si avevano i piedi poggiati con un po’ di vita in meno. Fare troppi errori quindi porterà alla morte e bisognerà ricaricare dall’ultimo salvataggio fatto presso una delle macchinette “La Fortuna”, una di quelle che infili la moneta e predice il futuro. Fortunatamente queste sono abbondanti, per cui non esiste frustrazione da questo punto di vista, ma c’è da dire che il materiale medico è talmente abbondante che anche se ci fossero state creature pericolose sarebbe stato più che sufficiente. Purtroppo le fasi platform sono quelle che soffrono di più in termini di gameplay a causa della fisica del gioco. Non è raro infatti che un salto venga fatto in maniera bizzarra e si finisca in un crepaccio piuttosto che sulla piattaforma su cui si voleva atterrare proprio a causa della fisica.
Dal punto di vista grafico-visivo, il gioco è mosso dall’engine Unity e si difende abbastanza bene, anche grazie all’adozione di un leggero cell-shading alle texture che ha il suo fascino. Ma purtroppo non si difende dal punto di vista dell’ottimizzazione. Su una GTX980 il gioco faticava a tenere i 60fps (e il cap era impostato a 120) persino nelle zone al chiuso, che rappresentano la maggior parte delle ambientazioni del titolo. Il sonoro invece è la parte più riuscita: sebbene i suoni ambientali siano buoni, il titolo è accompagnato da musiche veramente belle, nonché da un doppiaggio fatto bene, ma soprattutto fatto con stile.

Conclusioni

The Crow’s Eye è un titolo fatto con passione, e si vede, ma soffre di problemi di gioventù e inesperienza da parte del team. La storia narrata è buona, ma fatica a decollare e non lascia il segno, mentre la qualità degli enigmi è molto altalenante e se il team si fosse anche solo concentrato un po’ di più su questo aspetto ne sarebbe uscito un titolo di tutt’altro spessore. L’ottimizzazione invece è quasi inesistente, con un frame rate molto ballerino e incapace di raggiungere alti valori di fps nonostante il gioco sia vuoto e non ci sia nessuna IA da controllare. Un plauso invece va all’atmosfera e alla ambientazione, davvero ben fatte e riprodotte e riadattate in maniera egregia, così come il doppiaggio, di buona qualità. Naturalmente, il gioco è solo in inglese, ma è un inglese semplice, alla portata di tutti quelli che affermano di saperlo.

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