Il game design che non c’è -quasi- più

Sembra che ultimamente i videogiochi stiano attraversando una crisi mistica. Alcuni vorrebbero diventare a tutti gli effetti dei film, altri dei “live services”, altri ancora dei simulatori di vita reale. Parliamo, in linea di massima, dei blockbuster più blasonati, dei cosiddetti tripla A (che di tripla A hanno ormai quasi solo il prezzo) che dovrebbero dettare legge sul mercato. E invece, spesso e volentieri, finiscono vittime delle mode del momento fioccate magari dal panorama indipendente. Limpido l’esempio dei MOBA, ormai in via di declino, dei titoli open world, dei survival o dei battle royale. E il game design? Quello vero, quello che ci ha regalato i capolavori senza tempo degli anni ’90, i vari Baldur’s Gate, Myst e Half-Life insieme alle controparti console quali Final Fantasy e Secret of Mana, oggi riproposti assiduamente in versioni rimasterizzate per una chiara mancanza di idee.

Possiamo dire che il game design odierno è la versione rilassata e vacanziera di ciò che avevamo in passato. Lo si nota chiaramente osservando il calendario delle uscite, sempre più affollato di riedizioni di ogni tipo e giochi talmente simili fra loro che si fatica a distinguerli. Citavamo prima le tendenze di genere, che dominano il mercato e le piattaforme online dedicate. Su Twitch e Youtube, al momento, regnano incontrastati i battle royale, ennesimo fenomeno destinato a svanire o comunque affievolirsi notevolmente nel giro di un annetto allo stesso modo delle meteore che l’ha preceduto. Parliamo ad esempio dei sandbox, dei survival a tema zombie e di tutti quei videogiochi dalla qualità piuttosto discutibile, magari in early access, a cui gli streamer più popolari hanno concesso dei mesi di gloria prima di farli tornare nell’oblio.

Niente di male, giusto? Un semplice quanto spietato processo di selezione naturale. Il problema risiede nella volontà di molti publisher di lanciarsi a capofitto nei trend e saturarli fino alla loro implosione. Nel mondo dei videogames non vale il repetita iuvant. Se nel giro di un mese escono 20-30 titoli simili, potete star certi che si giungerà presto alla morte del genere. Sta succedendo con i simulatori, con i MOBA, con i survival e succederà anche con i battle royale, potete starne certi. Anche perché, diciamo le cose come stanno, si tratta di prodotti qualitativamente approssimativi, studiati per attrarre un pubblico parecchio giovane e durare poco nel tempo. Quando anche Rockstar annuncia di voler inserire una modalità battle royale all’interno di Red Dead Redemption 2 noi non ci vediamo lungimiranza, solo un forte appetito momentaneo.

I gamer si stancano facilmente e in fretta, questo i publisher non dovrebbero mai dimenticarlo. Ecco perché bisognerebbe puntare di più, come in passato, su esperienze fatte e finite, anche lineari, piuttosto che produrre con lo stampino open world vuoti e generici, survival multiplayer senza innovazioni e via dicendo. Proporre esperienze originali e profonde sullo stile di Hellblade Senua’s Sacrifice, Nier Automata, Undertale, qualcosa che faccia avanzare ed evolvere un medium oggi fin troppo statico. Ricordate le avventure interattive? Quelle sembravano interessanti. Peccato che Telltale si sia cullata sugli allori sfornandone una al mese senza alcuna innovazione tecnica e meccanica decretandone la morte commerciale. E allora qual è il motivo per cui si insiste nel voler seguire le mode? La grana facile, il quick buck, ecco cosa.

Il game design volto a lasciare il segno nella mente e nel cuore dei giocatori è stato sostituito dalla filosofia del live service, la macchina da soldi, la Shell senza Ghost volta a tenere impegnati garantendo introiti continui anche a costo di perdere reputazione (Bungie & Activision Blizzard), mentire spudoratamente agli utenti (Ubisoft) e causare enormi backlash sul web (EA). I videogiochi single player lineari hanno lasciato il posto agli open world pieni di fuffa dove la quantità surclassa la qualità e non esiste più il piacere della scoperta. I multiplayer competitivi vengono invece invasi dalle microtransazioni predatorie e dalle loot box che sostituiscono i veri sistemi di progressione. Tutto a discapito del game design, rinvenibile oggi soltanto in qualche raro first party e nel mondo indie, che a questo punto diventa l’unica speranza per i gamer nostalgici come noi. Requiescat in pace, game design.

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